di Laura Guerra
L’Italia, mentre vive la quarantena imposta dall’emergenza sanitaria per il Coronavirus, resiste e impasta.
E, farina e lievito continuano ad essere, man mano che passano i giorni, gli ingredienti più richiesti e più presenti nei carrelli della spesa. Quelli in cima alla lista delle cose da comprare quando si andrà al supermercato anche in quantità spropositate.
Antimo Caputo, amministratore delegato dell’omonimo e storico Mulino di Napoli, con sede a San Giovanni a Teduccio, lancia il suo invito alla calma.
“La nostra produzione non si interrompe, la farina non manca, non è necessario fare la corsa all’ultimo pacco, stiamo lavorando e continueremo a farlo con lo spirito civico che da sempre ci contraddistingue. La nostra azienda in 5 generazioni di lavoro alla molitura del grano ha attraversato tante epoche in cui si sono alternati periodi di difficoltà e fasi di benessere. Ci siamo stati sempre. Con il nostro lavoro. Con scrupolo e coscienza. Ci siamo anche in questa emergenza sanitaria, con la farina che è diventato bene rifugio per il valore di conforto che ha in questi giorni di quarantena”.
Ognuno di noi ha chiaro il momento in cui ha realizzato con nitidezza il passaggio fra il prima e il dopo Coronavirus, il suo qual è?
“La mattina di lunedì 9 marzo, erano passate poche ore dal primo decreto del Presidente del Consiglio Conte in cui si annunciavano le prime limitazioni e i primi cambiamenti nella nostra vita quotidiana, arrivo in azienda e trovo tutti, tutti i nostri dipendenti presenti; ognuno al suo posto; prese e rispettate le tutte le precauzioni in aggiunta ai nostri abituali standard di sicurezza, erano tutti al lavoro. Confesso che mi sono commosso, è stato un momento che non dimenticherò mai. La testimonianza di come un lavoro possa diventare più di uno stipendio e di una prestazione ma essere valore, senso di appartenenza, dovere di continuare a fare la farina che non può e non deve mancare”.
Perché è cosi importante, averla nonostante i ripetuti inviti a non fare scorte alimentari?
“Sapere che è in dispensa è rassicurante, siamo pur sempre il paese dei cento paesi agricoli, nella nostra memoria c’era depositato da qualche parte il racconto della nonna che in tempo di guerra si sentiva ricca se aveva mezzo chilo di farina per fare dei cavatelli conditi con un filo d’olio. Impastare ci fa pensare che stiamo facendo qualcosa di utile, la mente è impegnata e tutti i sensi sono coinvolti in un contatto diretto con il cibo”.
Con le pizzerie chiuse per decreto tutti a fare la pizza in casa il sabato sera, che effetto fa?
“E’ molto bello e anche divertente, dalle foto sui social vediamo chi è più tradizionalista e fa la margherita e chi invece sperimenta condimenti più creativi; la pizza casalinga del sabato sera è un simbolo dell’Italia in questo periodo di quarantena”.
Che scenario possiamo tracciare guardando invece al mercato?
“Serve più Europa, ai prodotti italiani, al made in Italy, all’agroalimentare serve l’Europa unita dal punto di vista delle norme e degli accessi commerciali. In questi giorni ci sono paesi che chiudono o minacciano di chiudere l’ingresso delle merci italiane; è una follia e un danno economico enorme per imprese come la nostra che esportano all’estero. Passando allo scenario macro il continente Europa deve essere unito per rafforzarsi sui mercati internazionali; la separazione, l’isolazionismo può fare solo danni in periodi normali, ancora di più in questo tempo sospeso fra il prima che non tornerà e un dopo che non conosciamo. Il dopo è nelle nostre mani e dobbiamo essere capaci di anticiparlo per poterlo governare”.
Quale chiave può essere utile?
“Back to basic. Mi convince molto questa sintesi, tornare all’essenziale. Può essere una buona bussola per noi imprenditori, i consumatori mettendosi a impastare lo stanno già facendo”.