Viviamo talmente nella società dell’immagine, della foto su Instagram che deve risucchiare like come il fornellino della stanza da letto attira le zanzare, che non si capisce ciò che è chiaro nella realtà e che il Covid-19 ha accentuato ancor di più: il modello italiano dell’alta ristorazione così come è stato costruito dalle guide e dallo specchietto per le allodole costituito dalla Tv è in crisi. Ormai è diventato più difficile trovare una sottiletta Kraft che una guancia cotta a bassa temperatura.
E i cuochi si dividono in due categorie: quelli che postano i piatti e quelli che postano le immagini di se stessi in pose statuarie affidate a professionisti per diventare personaggi.
Personaggi per come posano non per come cucinano.
Parte (parte) della critica privilegia la seconda categoria, ma è facile capire perché: uffici stampa e gestori di pagine social servono a questa strategia e dunque siamo nel circolo vizioso di una critica che alimenta modelli lontano dalla realtà per alimentare alla fine se stessa.
Il Covid sembra aver dato il colpo mortale costringendo a questo circuito virtuale: del resto, alcuni locali, anche stellati, che hanno cucinato solo per la critica infischiandosene della clientela sono costretti ad aprire bistrot e a fare ristorazione easy per superare il difficile momento che li ha visti arrivare con il fiatone alla chiusura di marzo.
Siamo, pensate un po’, al paradosso di cuochi che spendono gli ultimi soldi per continuare a pagare esosi uffici stampa invece di saldare i debiti di forniture consegnate ben prima delle feste di Natale. Insomma, un mondo alla rovescia, nel quale è in difficoltà quella che da parte della critica ufficiale è considerata il top della ristorazione. E la domanda viene spontanea: ma se è top non doveva essere la prima ad aprire? Come si fa ad essere top e non avere la possibilità di riaprire per primi? Nella prima settimana dopo il lockdown solo il 16,5% degli stellati italiani ha avuto la forza di farlo.
Al di là delle medaglie, i fatti hanno dimostrato chiaramente chi nell’alta ristorazione è autentica avanguardia capace di riempire la sala e vivere, sia pure tra mille difficoltà, con la clientela.
Eppure basterebbe osservare con calma questi esempi per capire la ricetta della felicità. La soluzione è sotto gli occhi di tutti ma solo quelli intelligenti la vedono. Direi coloro che sono veramente cuochi e non fenomeni da baraccone, quelli che stanno ai fornelli e non in posa, che usano il mestolo e non il cellulare.
Si chiama prodotto. Quello che cercano gli stranieri quando vengono in Italia, ciò che veramente distingue una regione dall’altra e fa la differenza regalando la sensazione di unicità nell’ambito della dimensione del viaggio.
L’abilità di un cuoco oggi è fare quello che hanno fatto le mamme sino agli anni ’60: fare la spesa, capire cosa è buono e cosa no, seguire la stagionalità, proporre una cucina sana e ricca di sapore. Passatismo? Nostalgia? Neopauperimo? Ottusa ideologia del chilometro zero? No, semplicemente futuro.
Lo ha capito per primo Alfonso Iaccarino quando in tempi non sospetti ha investito i suoi risparmi comprando la proprietà a Punta Campanella e facendosi fotografare con una cassetta di frutta e ortaggi per un rotocalco popolare.
La differenza la fa il prodotto vero, a partire da quello che effettivamente troviamo dal fruttivendolo sotto casa o in un buon supermercato e poi guardando in giro per il mondo. Una delle frasi che indica la fine della cucina è «Non ho tempo per fare la spesa».
Come è possibile solo pensare una cosa del genere? Come è possibile non dedicarsi con pignoleria a ciò che mangiamo e che dunque diventeremo? Come è possibile fare il cuoco e ordinare a catalogo?
Ecco dunque spiegata la debolezza cronica di un sistema che ha perso completamente di vista il motivo per cui è nato: soddisfare il cliente.
Prodotto vero non significa solo gusto e sapore, ma anche sicurezza e salute, che sono appunto i temi che il Covid ha messo in evidenza come esigenza prioritaria per chi va al ristorante.